A
Gerusalemme, respinto l’attacco dei crociati, è scesala notte
e i
musulmani vegliano. Il mago Ismeno prepara una sua mistura
incendiaria
di zolfo e di bitume, Clorinda si spoglia della consueta
veste
d’argento e indossa un costume nero, Argante nasconde
due
fiaccole dentro scatole di rame e sceglie due armature opache
di ruggine.
Non c’è
dubbio, stanno apparecchiando un colpo di mano.
Re Aladino
ha approvato un ardito piano di Clorinda e ha permesso
ad Argante
di accompagnarla……
Muniti
della mistura di Ismeno e delle fiaccole schermate, Clorinda
e Argante
si avviano verso il campo crociato. Strisciano cauti fino
alla linea
di guardia e poi passano silenziosi e rapidi tra le sentinelle;
queste,
sorprese, chiedono la parola d’ordine e non ricevendo
risposta
gridano l’allarme.
Qualcuno
tenta di gettarsi sugli sconosciuti, ma ha appena il tempo
di
infilarsi sulle loro spade. C’è un momento di confusione, i due ne
approfittano
per avvicinarsi fulminei alla torre, accendere le micce
e scagliare
sull’intelaiatura le palle di zolfo e di bitume.
Il fuoco
divampa di colpo e le fiamme sono alimentate dal vento.
Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
Degno a cui sua virtù si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde, assai prima
Che giunga, in guisa avvien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: - O tu, che porte,
che corri si? Risponde: -E
guerra e morte.
-Guerra e morte avrai- disse –io non rifiuto
dàrlati, se la cerchi-, e
ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.
Tre volte il cavalier la donna stringe
Con le robuste braccia, ed altrettante
Da que’ nodi tenaci ella si scinge
Nodi di fier nemico, e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
Con molte piaghe, e stanco ed anelante
E questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
Che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel seno di punta
Che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringeva tenera e leve,
l’empie d’un caldo. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
Vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
Movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirito ditta,
spirito di fè, di carità, di speme:
virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole morte ancella.
- Amico, hai vinto: io ti perdon…
perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sì; deh! Per lai prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.
In queste voci languide risuona
Un non so che di flebile e soave
Ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
Poco quindi lontan nel sen del monte
Scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empiè nel fonte
E tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
Non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
E voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
Non morì già, che sue virtù accolse
Tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutassi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: << S’apre il cielo; io vado in pace>>.
D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste vïole,
e gli occhi al cielo affissa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.