Un’avventura di Erminia

 

Beata Clorinda - sospira la tenera Erminia - Quanto la invidio. Se fossi anch’io una guerriera, avrei potuto battermi con Argante risparmiando a Tancredi tutte quelle ferite. Oppure avrei fatto Tancredi prigioniero, e ora me lo terrei qui e lo servirei di gentilissime catene. O magari lui m’avrebbe affondato la spada nel petto, e il mio amore sarebbe volato nella morte proprio davanti ai suoi occhi. Beata Clorinda! Se vuole uscire dalle mura, non ha timori: prende armi e cavallo e niente e nessuno la può fermare. Però, a pensarci bene, un elmo, una spada e uno scudo non saranno poi troppo pesanti da portare. Dopotutto si tratta di fingere, mica di usarli sul serio. Chi avrebbe immaginato che i pensieri della sognante Erminia prendessero una strada così ardita? Sconvolta dal duello a cui ha assistito, e che tra sei giorni dovrà ricominciare, Erminia vuole correre da Tancredi. Quando un’anima timida e appassionata si sbriglia all’azione è capace di arrischiarsi nelle imprese più avventate. Aiutata dalla più devota delle sue ancelle e da un fedele scudiero, Erminia sottrae le armi e la sopravveste di Clorinda mentre questa partecipa a una riunione dei capi musulmani presso re Aladino. Così rivestita e imbracciato lo scudo, sente quasi piegar lesi le ginocchia; ma, radunate tutte le sue forze e montata a cavallo, la nostra cerbiatta riesce a darsi una figura marziale. Travestita alla meglio anche l’ancella, i tre, favoriti dal buio della sera, raggiungono senza impedimenti la porta settentrionale, dove Erminia dalle insegne e dalla sopravveste bianca viene scambiata per Clorinda. Fu così che, soffocando la paura, Erminia, ancella e scudiero si trovarono fortunosamente fuori di Gerusalemme e si gettarono per cammini obliqui lungo la vallata verso l’accampamento crociato. Posta  una buona distanza tra sé e Gerusalemme, Erminia comincia a rendersi conto del rischio che correrebbe nel presentarsi al campo nemico sotto le vesti di Clorinda. D’altra parte, per procedere sicura dovrebbe farsi riconoscere dalle guardie crociate, ciò la metterebbe in un grave imbarazzo. Insomma, compiuta con avventuroso slancio la temeraria sortita, Erminia è ridiventata timida. Non le resta che inviare lo scudiero da Tancredi per annunciargli con discrezione che una nobile fanciulla musulmana, non ignota al principe crociato, è venuta amorosamente per curarlo e chiede di essere ammessa al campo con un suo salvacondotto. Partito lo scudiero, Erminia se ne sta protesa ad attenderne il ritorno,girandosi nella fantasia una sequenza un po’ troppo veloce.-Eccolo che arriva al campo……si reca da Tancredi..…lo saluta, gli fa l’ambasciata…va tutto bene….ecco che sta tornando……- Ma siccome la sequena è finita, lo scudiero non si vede, Erminia agitata e impaziente spinge avanti il cavallo e risale un’altura dalla quale si scorgono sotto la luna le tende crociate.

Era la notte, e ‘l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna,
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ‘l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.

Poi rimirando il campo ella dicea:
-o belle a gli occhi miei tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur che m’avicine,
così a mia vita combattuta e rea
qualche onesto riposo il Ciel destine,
come in voi solo il cerco, e solo parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l’armi.

Raccogliete me dunque, e in voi si trove
quella pietà che mi promise Amore
e ch’io già vidi, prigioniera altrove,
nel mansueto mio dolce signore.

Tancredi, che giaceva dolorante sotto la propria tenda, e che anche lui, come sappiamo, crede più al desiderio che alla ragione, ha subito sperato che la soccorrevole  visitatrice annunciatagli dallo scudiero fosse la vagheggiata
Clorinda. Pazza illusione che, del resto, la pazze circostanze confermano, quando la guardia dà l’allarme comunicando che Poliferno sta inseguendo la famosa guerriera musulmana inspiegabilmente apparsa nei pressi del campo. Quella gentile creatura veniva da me, pensa Tancredi, e adesso è in pericolo per causa mia. E, trascurando piaghe e ammaccature, indossata in fretta una leggera armatura,monta a cavallo e si butta sulle tracce della finta Clorinda…..Ora Tancredi, più gira e rigira nella notte –da una collina a un bosco, da un bosco a una pianura- e più si smarrisce. Disorientato e ormai rassegnato alla scomparsa di Clorinda, s’affida al caso e finisce col seguire un raggio di luna, il suono d’un uccello, un vento tra le foglie, il gorgoglio d’un torrente. Ritrovatosi all’alba in luoghi sconosciuti, si risolve a riprendere la strada del campo. Già, ma quale strada? Mentre procede incerto incontra un corriere col corno a tracolla.- Dev’essere uno dei nostri- si dice Tancredi, e gli fa:- Sai dirmi in quale direzione è il campo cristiano?- E’ dove sto andando- risponde il corriere. – Seguimi, che la strada è lunga- E galoppano per tutto il giorno, finché al tramonto giungono presso una palude fetida e bituminosa che circonda un sinistro castello. E’ li che Armida ha rinchiuso i suoi spasimanti guerrieri. Ricordiamoci di Erminia che, sorpresa e scambiata per Clorinda dalle guardie dell’accampamento crociato, quasi morta di paura era fuggita spronando convulsamente il cavallo. Ma chi fugge da un luogo deve pur comparire in un altro. E qui ci si aspetta una sorpresa. Perché successe che Erminia, anziché imbattersi in qualche brutto incontro, come capitò a Tancredi, il quale credendola Clorinda la cercava disperatamente e ,perdutosi nel cercarla dove lei non era, fu trascinato in un inganno e inghiottito dal castello di Armida-, anziché, dicevamo, in un caso avverso e infelice (vento non improbabile per una ragazza indifesa travestita da guerriera), Erminia andò a cadere in un intermezzo bucolico, tra la panna e il miele, mansuete greggi e uccelli canori.

Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida;
non udendo o vedendo altro d’intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l’ra che ‘l sol dal carro adorno
scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida,
giunse del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui si giacque.

Cibo che non prende gi; che de’ suoi mali
solo si pasce, e sol di pianto ha sete;
ma l’sonno, che de’ miseri mortali
è co ‘l dolce oblio posa e quiete,
sopì co’ sensi i suoi dolori, e l’ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre ella dorme.

Non si destò sin che garrire gli augelli
non sentì lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,

e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi, e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce uscir tra l’acqua e i rami,
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.

Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti
rotti da un chiaro suon, ch’a lei ne viene,
che sembra, ed è, di pastorali accenti
misto e di boscarecce inculte avene.
Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,
e vede un uomo canuto a l’ombre amene
tesser fiscelle a la sua greggia a canto,
ed ascoltar di tre fanciulli il canto.

Vedendo quivi comparir repente
l’insolite arme, sbigottir costoro;
ma gli saluta Erminia, e dolcemente
gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro.
- Seguite- dice avventurosa gente,
al Ciel diletta, il bel vostro lavoro;
che non portano già guerra quest’armi
a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi.

 

 

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