Astolfo sulla luna

 

 

In questo episodio la fantasia di Ariosto spazia in piena libertà tra i valloni di un paesaggio lunare, ingombro di un’ infinità di cose che sulla Terra vengono perdute o per avversa fortuna o, più spesso, per errori commessi dagli uomini. Prendendo spunto da questa ambientazione così fantasiosa e surreale, il poeta ha modo di lasciar affiorare la sua personale visione del mondo: vista dalla luna, la vita sulla Terra appare come un’ insensata e affannosa rincorsa di cose sfuggenti. 

 

 

Orlando è dunque impazzito per amore di Angelica. Nel mondo di Ariosto non vi è però nulla di irrimediabilmente perduto. Il paladino Astolfo è giunto in prossimità del Paradiso terrestre cavalcando l’Ippogrifo, un magico cavallo alato. Viene quindi accolto da san Giovanni evangelista che lo accompagna sulla Luna, dove si conserva tutto ciò che si perde sulla Terra. Astolfo potrà quindi recuperare il senno di Orlando e far rinsavire il campione cristiano, di cui le schiere di Carlo Magno hanno assoluto bisogno.

 

 

 

                                LXXII            Altri fiumi, altri laghi, altre campagne

Sono là su, che non son qui tra noi;

altri piani, altre valli, altre montagne,

c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,

con case de le quai mai le più magne

non vide il paladin prima ne poi:

e vi sono ample e solitarie selve,

ove le ninfe ognor cacciano belve.

 

                                     LXXII               Non stette il duca a ricercare il tutto;

che là non era ascesa quello effetto.

Da l’apostolo santo fu condotto

In un vallon fra due montagne istretto,

ove mirabilmente era ridutto

ciò che si perde o per nostro difetto,

o per colpa di tempo o di fortuna:

ciò che si perde qui, là si raguna.

 

                                      LXXIV            Non pur di regni o di ricchezze parlo,

in che la ruota instabile lavora;

ma di quel ch’in poter di tor, di darlo

non ha Fortuna, intender voglio ancora.

Molta fama è là su, che, come tarlo,

il tempo al lungo andar qua giù divora:

là su infiniti prieghi e voti stanno,

che da noi peccatori a Dio si fanno.

 

                                       LXXV               Le lacrime e i sospiri degli amanti,

l’inutil tempo che si perde a giuoco,

e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,

vani disegni che non han mai loco,

i vani desideri sono tanti,

che la più parte ingombran di quel loco:

ciò che in somma qua giù perdesti mai,

là su salendo ritrovar potrai.

 

 

 

Astolfo vede le corone degli antichi imperi, i regali fatti per ingraziarsi i potenti, le adulazioni. C’è qualcosa che interessa anche i poeti, almeno quelli poco sinceri:

 

Di cicale scoppiate imagine hanno

Versi ch’in laude dei signor si fanno.

 

Ancora: ci sono gli amori sfortunati, i passeggeri favoritismi dei principi, gli onori vani, gli accordi violati, le elemosine lasciate per testamento ( e che gli eredi non faranno mai). Le perdute bellezze femminili, poi, sono raccolte in un mucchio di dimensioni particolarmente ragguardevoli. Ma fare un elenco di tutto quello che si trova sulla Luna sarebbe, se non impossibile, certamente troppo lungo. Tanto vale, allora, dire che cosa invece non si trova:

 

sol la pazzia non v’è poca né assai;

che sta qua giù, né se ne parte mai.

 

Se la pazzia manca sulla Luna perché sembra tenacemente attaccata alla Terra, non altrettanto si può dire del senno. A noi pare di possederne sempre nella massima quantità, tanto che non preghiamo mai Dio per riottenere il senno perduto, ma lì sulla Luna ce n’era una montagna vera e propria e da solo occupava più spazio di tutte le altre cose messe insieme.

 

 

                                     LXXXIII             Era come un liquor suttile e molle,

atto a esalar, se non si tien ben chiuso;

e si vedea raccolto in varie ampolle,

qual più, qual men capace, atte a quell’uso.

Quella è maggior di tutte, in che folle

signor d’Anglante era il gran senno infuso;

e fu da l’altre conosciuta, quando

avea scritto di fuor: “Senno d’Orlando”.

 

                                     LXXXIV           E così tutte le altre avean scritto anco

Il nome di color di cui fu il senno.

Del suo gran parte vide il duca franco;

ma molto più maravigliar lo fenno

molti ch’egli credea che dramma manco

non avessero averne, e quivi dènno

chiara notizia che ne tenean poco;

che molta quantità n’era in quel loco.

 

                                      LXXXV             Altri in amar lo perde altri in onori,

altri in cercar, scorrendoli mar, ricchezze;

altri ne l speranze de’ signori,

altri dietro alle magiche sciocchezze;

altri in gemme, altri in opre di pittori,

et altri in altro che più d’altro aprezze.

Di sofisti e d’astrologhi raccolto,

e di poeti ancor ve n’era molto.

 

                                    LXXXVI             Astolfo tolse il suo; che gliel concesse

lo scrittor de l’oscura Apocalisse.

L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,

e par che quello al luogo suo ne gisse:

e che Turpin da indi in qua confesse

ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;

ma ch’uno error che fece poi, fu quello

ch’un’altra volta gli levò il cervello.

 

 

L. Ariosto, Orlando furioso, canto XXXIV.

 

                

 

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