Il poema trae il
suo titolo proprio da questo episodio: il poeta segue da
vicino il suo eroe, cogliendo le frasi successive attraverso le quali il
dolore per il tradimento di Angelica, a lungo trattenuto, si riversa
all’esterno nella forma di una violenta follia distruttrice.
Impegnata a sfuggire dai tanti cavalieri che si sono invaghiti di
lei, Angelica si imbatte nel corpo agonizzante di un giovane. È Medoro, un
semplice fante saraceno, ferito dai soldati scozzesi di Zerbino. La giovane
donna, rivelatasi fin qui fredda e sdegnosa, prova un inatteso senso di pietà e
di tenerezza che la porterà a innamorarsi del soldato. Con l’aiuto di un
pastore, Angelica trasporta Medoro in una capanna, dove può curarlo e assisterlo.
A guarigione avvenuta, i due si sposano e decidono di restare ancora per
qualche tempo nella capanna del pastore. Il paesaggio intorno è incantevole e i
due innamorati non mancano di lasciare incisi un po’ ovunque, sui tronchi e
sulle rocce, i loro nomi uniti e intrecciati. Partono quindi per il Catai, di
cui Angelica è principessa e dove verrà donata a Medoro la corona di re. Poco
tempo dopo passa in quegli stessi luoghi Orlando…
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto
[…]
Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man della sua diva.
Questo era uno di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere sono, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
va col pensiercercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
Poi dice: -Conosco io pur queste note:
di tal’ io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse c’ha me questo cognome mette.-
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a se medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.
Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.
Orlando entra in una grotta e vede che le pareti sono piene di
disegni e scritte nelle quali riconosce la calligrafia di Angelica. Questo era
il posto in cui Medoro e la principessa del Catai si rifugiavano. Tra le varie
scritte che vede sulle pareti una in particolare lo incuriosisce; quest’ ultima
dice: -Oh star qui con la principessa Angelica abbracciato mattina e sera oh
com’è bello. Firmato: “Medoro”. Orlando vedendo queste scritte cerca di trovare
una spiegazione ma tra tutte quelle che trova nessuna si avvicina alla realtà
più ovvia. Proseguendo di poco il camino Orlando vede una casa ed un gruppo di
pastori che stanno finendo ormai di pascolare siccome si avvicina la sera. Il paladino
si avvicina e chiede asilo per la notte; i pastori subito lo accolgono e
cercano in tutti modi di trattarlo degnamente, Orlando li lascia fare e poi va
a coricarsi ma non riesce a chiudere gli occhi. Le scritte vedute nella grotta
continuano a perseguitarlo e gli sembra di vederle dappertutto. In quel che,
arriva il pastore che lo ha ospitato e dopo avergli posto qualche domanda, gli
racconta una storia che dice esser vera. Orlando lo ascolta con attenzione. Il
pastore comincia: -In questa casa ha alloggiato una principessa dell’Oriente …
Quest’ ultima aveva raccolto sul campo di battaglia un ragazzotto biondo.
E il pastore racconta poi tutta la storia dell’amore tra Medoro e Angelica.
- Proprio in quel letto dove siete sdraiato hanno passato la prima notte di
nozze! Guarda cosa ci ha regalato la principessa, partendo per il Catai con il
suo sposo! – e mostra un braccialetto tempestato di gemme. Era il braccialetto
che Orlando le aveva regalato come pegno d’amore. Orlando alza e montato sul
suo destriero comincia a cavalcare nella notte urlando. Piang tanto che si dic:
- Queste non possono essere più lacrime perché ormai devo averle versate tutte:
questa che mi scende dagli occhi è l’essenza vitale che mi sta abbandonando.
Sospira così tanto che si dice: - Questi non possono essere sospiri perché non
si fermano mai: è certamente il mio cuore che sta bruciando ed esala questo
vento come per la cappa di un camino. Soffre tanto che si dice: - Questo non
posso essere più io, perché Orlando è morto, ucciso da Angelica. Io sono il
fantasma di me stesso che non troverà più pace. All’alba si trova nella grotta
in cui Medoro ha inciso la sua confessione e a colpi di Durlindana la
distrugge. Poi si sdraia a terra e per tre giorni e tra notti resta così, senza
mangiare né dormire e poi al quarto giorno si spoglia e dopo aver lanciato i
pezzi d’armatura, comincia a sradicare un pino, poi un rovere, poi un olmo. Da
quel momento la pazzia di Orlando prese a crescere, a scatenarsi, a infuriare
sui campi e sui villaggi.
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar della diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio , rabbia, ira e furore;
né più indugò, che trasse il brando fuore.
Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fè le minure schegge.
Infelice quell’antro, et ogni stelo
In cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle,
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
Afflitto e stanco al fin cade né l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ‘l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
Qui riman l’elmo, e là riman
lo scudo
lontan gli arnesi, e più lontano l’usbergo:
l’arme sue tutte in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, si orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatta avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse
ch’un alto pino al primo crollo svelse.
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei guinchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foreste,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
Vi potria la mia istoria esser molesta;
et io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.
L. Ariosto,
Orlando furioso, canto XXIII.