In Italia il fallimento dei moti del
1820-1821 e del 1831 portò una profonda riflessione sui motivi della sconfitta.
Fu in particolare Giuseppe Mazzini (1805-1872) a
criticare duramente
Egli sosteneva che questa società segreta aveva
sempre agito separatamente nei vari Stati italiani e non aveva mai elaborato un programma, né tentato
un’azione di tipo nazionale. Inoltre si era rivolta solo agli ambienti elevati
della società e non al popolo, che Mazzini considerava come il “principale
operatore delle grandi rivoluzioni”. Di conseguenza nel 1831 Mazzini fondò un
nuovo movimento, la “Giovine Italia” che tentava di superare i limiti della
Carboneria e aveva un programma ben più democratico e progressista.
Ogni nuovo aderente doveva giurare di lottare con
tutto sé stesso per fare dell’ Italia una nazione unita, indipendente, libera,
repubblicana; inoltre s’impegnava a far conoscere con ogni mezzo il programma
mazziniano.
Mazzini non intendeva più rivendicare
A questi ideali bisognava educare l’intero popolo
poiché era necessario che l’insurrezione fosse sostenuta direttamente da tutte
le classi sociali.
In pratica però quest’ultimo punto del programma di
Mazzini risultò molto debole, perché egli, pur non ignorando i problemi
materiali dei ceti più poveri, sosteneva che questi problemi dovessero essere
affrontati solo dopo l’unificazione.
Ma
la stragrande maggioranza della popolazione italiana era formata da contadini, interessati
più a una distribuzione delle terre che agli ideali di libertà e di
unificazione politica, troppo lontani dai loro bisogni reali. Per questo i moti
organizzati dai mazziniani tra il 1833 e il 1845 incontrarono l’indifferenza o
addirittura l’ostilità delle masse contadine e fallirono.
Fonte testo: C. E. Rol,
Il libro di storia 3 A, Il capitello, Torino 2004.
Fonte immagine: E. Bonifazi F. Chiara, Civiltà nella Storia 2,
Bulgarini, Calenzano (FI) 2010